L’art. 5-quinquies della Legge sulla Voluntary Disclosure, al punto 8, consente al contribuente che non abbia dichiarato investimenti finanziari detenuti all’estero, in luogo della determinazione analitica dei rendimenti, di far determinare tali rendimenti d’ufficio forfettariamente con l’applicazione del 5% di interessi presunti al valore complessivo della loro consistenza alla fine dell’anno, con base per l’imposizione pari al 27% e sempre che la media delle consistenze di tali attività finanziarie non ecceda il limite di 2 milioni di euro al termine di ciascun periodo d’imposta oggetto della collaborazione volontaria, così come valorizzate secondo quanto previsto per il Quadro RW.

Quindi, in definitiva, con il calcolo a forfait si pagherà l’1,35% del capitale, cioé il 27% sul 5% di interessi presunti. Questa forma di forfetizzazione del debito tributario, alternativa alla ricostruzione analitica, dovrebbe consentire al contribuente che volesse riportare nel nostro Paese il patrimonio di effettuare un calcolo semplificato rispetto alla ricostruzione analitica, e dunque, non nasce con lo scopo di ridurre il contenzioso eventuale, perché è nella logica stessa della legge sulla Voluntary Disclosure che il contribuente che si sia autodenunciato non contesti il quantum ed anzi versi nei termini previsti quanto elaborato dai conteggi effettuati dall’Ufficio per la definizione agevolata degli importi dovuti, pena, appunto, la decadenza dai benefici.

In effetti, tutta la struttura della Voluntary Disclosure è basata sulla ricostruzione analitica dei capitali detenuti all’estero dal contribuente ma la circolare 10/E 2015 chiarische anche che: “Nei soli casi in cui si configuri in maniera evidente l’impossibilità per il contribuente di produrre il corredo documentale ed informativo previsto dall’articolo 5-quater, comma 1, lettera a), resta ferma la facoltà per l’Amministrazione di far valere la presunzione legale relativa di redditività delle attività finanziarie estere prevista dall’articolo 6 del decreto legge.” Ma oltre alla semplificazione del calcolo va osservato che, per quanto sia vero che possono aprirsi dei vantaggi in termini di riduzione della complessità del calcolo complessivo di imposte e sanzioni e di produzione di documentazione, vanno anche valutati alcuni svantaggi, soprattutto se si considera che i rendimenti sperimentati negli anni più recenti sono stati molto bassi e spesso ben al di sotto del 5% se calcolati analiticamente.

Il regime analitico appare più conveniente anche in quei casi in cui le attività finanziarie siano state gestite da un fondo comune d’investimento, tassati al 12,5%. E a favore della scelta per il calcolo analitico può anche giocare il fatto che l’Agenzia delle Entrate potrebbe riconoscere il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero. E per i titolari di conti pocket che comunque scegliessero il metodo del calcolo analitico, ad esempio proprio per motivi di non convenienza economica rispetto al calcolo presuntivo di redditività al 5% su cui applicare le sanzioni, andrebbero anche prodotti nella gran parte dei casi, tutti i documenti a supporto e tale documentazione renderebbe palese la modalità di costruzione dell’importo complessivo e gli eventuali apporti successivi all’investimento iniziale.

E, certo, potrà anche esserci chi presenterà solo i documenti che avrà realmente a propria disposizione e che si sarà riusciti a reperire, spesso con grande difficoltà, a supporto della domanda, sperando che l’Agenzia delle Entrate si accontenti. In definitiva, il calcolo a forfait può essere un metodo vantaggioso ma può non essere sempre il metodo più adatto e, come per quasi tutti gli aspetti di questa legge, ogni caso va valutato singolarmente.

Paolo Battaglia