L’anatocismo consiste nella capitalizzazione degli interessi su un capitale che, a loro volta, sommati al capitale iniziale producono altri interessi (interessi sugli interessi).

Nella prassi bancaria tali interessi “composti” vengono applicati, ad esempio, quando si capitalizzano gli interessi trimestralmente, cioè quando gli interessi maturati su un dato capitale alla fine di un periodo, vengono sommati al capitale di debito su cui sono stati calcolati e iniziano a produrre interessi per il periodo successivo, su un nuovo importo, ovviamente superiore, e ciò anche se sono regolarmente pagati (la legge ammette il pagamento degli interessi legali sulle quote di debito, capitale e interessi, che non sono state regolarmente pagate a scadenza).

Il calcolo degli interessi in regime di capitalizzazione composta anziché in regime di capitalizzazione semplice determina una crescita esponenziale del debito.

Applicando l’anatocismo il debitore, avrebbe l’obbligo di pagamento, non solo del capitale e degli interessi pattuiti, ma anche degli ulteriori interessi calcolati sugli interessi già scaduti.

Il nostro ordinamento giuridico, riguardo all’anatocismo, fa riferimento a quanto previsto dal codice civile all’articolo 1283. Secondo questa norma, gli interessi scaduti, in assenza di usi contrari, possono produrre a loro volta interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi. In linea di principio, il codice civile vieta un regime di anatocismo, cioè il pagamento degli interessi su interessi di periodi precedenti.

Nonostante ciò, finora la prassi bancaria italiana ha applicato l’anatocismo regolarmente nei contratti di conto corrente, attraverso le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi sulle somme a debito dei clienti. Ciò grazie perché la giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, ha sempre affermato la validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale, escludendo l’esistenza di un contrasto con la previsione di cui all’art. 1283 codice civile, affermando che ci si trovava in presenza di un uso idoneo a derogare al divieto di anatocismo stabilito da tale norma.

Nel 1999, però, la Corte di Casazione ha affermato la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale, invertendo il proprio orientamento giurisprudenziale, argomentando nel senso della inesistenza di un uso normativo idoneo a derogare all’art. 1283 c.c..

A seguito di questo pronunciamento il legislatore ha modificato l’art. 120 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, con il decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, e ciò anche per evitare scompensi tra il lavoro dei giudici e la prassi.

Si è introdotto, con tale intervento, il principio della eguale cadenza di capitalizzazione dei saldi attivi e passivi, stabilendo, con norma transitoria, anche una sanatoria per il pregresso, fatte salve le clausole di capitalizzazione trimestrale contenute nei contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina. La norma transitoria è stata però dichiarata illegittima con sentenza 17 ottobre 2000, n. 425 dalla Corte Costituzionale, per eccesso di delega e conseguente violazione dell’articolo 77 della Costituzione.

Venuta meno la norma transitoria, la Corte di Cassazione ha continuato, con una ulteriore serie di sentenze, a ribadire il suo orientamento, (ad esempio con la sentenza 13 dicembre 2002, n. 17813), peraltro estendendo i principi anche ai contratti di mutuo i principi enunciati inizialmente con riferimento al conto corrente bancario .

Infine, la Corte di Cassazione ha confermato e consolidato in modo netto il cambio di orientamento giurisprudenziale del 1999 con la sentenza n. 21095/2004 (Cass. Civ., SS.UU., 4 Novembre 2004, n. 21095).


(continua…)