Pubblichiamo un articolo di Paolo Battaglia sul (Quasi) Brexit per Ascheri & Partners Ltd – London:
Iniziamo una serie di articoli per capire cosa è successo (e cosa potrà accadere) con il recente voto con cui la Gran Bretagna ha votato di lasciare l’UE, sia per il Regno Unito stesso che per gli altri Paesi dell’Unione Europea e per gli italiani che vivono e lavorano, con vari gradi di presenza e integrazione, in e con la Gran Bretagna.
Intanto chiariamo subito che la Gran Bretagna non ha lasciato l’Unione europea. Il referendum della scorsa settimana non è giuridicamente vincolante e nessun atto ufficiale è stato ancora compiuto per separare il Regno Unito dall’Unione Europea. Ma la maggioranza dei britannici ha votato a favore del “Leave”, del distacco, e molti politici hanno già dichiarato che il voto dovrà essere rispettato.
Come si è giunti al referendum sul Brexit?
L’attuale (e dimissionario) primo ministro David Cameron, promise di indire un referendum già nel 2013, in parte per evitare defezioni degli elettori conservatori verso lo UKIP, UK Independence Party, partito fortemente anti-EU.
Lo stesso Cameron non si aspettava questo esito elettorale. Eppure molti elettori, soprattutto nei centri minori e la popolazione oltre i 65 anni, sono stati motivati da un diffuso senso di frustrazione per l’influenza di Bruxelles sulla politica e sulle norme britanniche, percepita come un inutile appesantimento burocratico, in materia di immigrazione e per vie della crisi di tante economie e mercati locali (l’economia nell’intero Regno Unito non è vivace e florida come a Londra) il cui declino è stato attribuito a immigrazione e alle pressioni dell’UE. Questo diffuso sentire è stato anche alimentato dalla stampa euroscettica e dalla politica populista e suggestiva di un Farage o, per molti versi, di un Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra, che già scalpitava per sostituire Cameron alla guida del Paese. Tuttavia, molti sono anche gli errori durante la campagna a favore del “Remain”.
Intanto, la decisione di Cameron di indire un referendum (non era tenuto a farlo) è stata una scommessa davvero azzardata e gli è andata male, determinando sia la scelta della fuoruscita del Regno Unito dall’UE che la fine della sua carriera come primo ministro. La minaccia della perdita di elettori verso l’UKIP da parte di Cameron forse fu sovrastimata, perché anche se UKIP prese 3,6 milioni di voti nelle elezioni generali 2015, vinse un solo seggio. In effetti, George Osborne, cancelliere e stratega di David Cameron, e Michael Gove, il ministro della Giustizia (pro-Brexit), si dissero contrari all’idea di indire un referendum, ma Cameron andò avanti. Ancora, all’inizio di dicembre 2015 il governo conservatore di Cameron batté, con 303 voti contro 253, un emendamento dei partiti di opposizione che chiedevano l’abbassamento dell’età di voto per il referendum (16 o 17 ani d’età). Quel voto fu voluto dai Tories per ottenere il sostegno per il passaggio alla Camera dei Lord. A posteriori la decisione ha avuto senz’altro un impatto sul voto referendario, perché gli adolescenti si ritiene, alla luce del recente voto, avrebbero votato per il “Remain”.
Anche lo stesso Johnson, fino alla fine di febbraio, aveva dei dubbi se propendere per il “Leave” o il “Remain”, al punto da scrivere due versioni di un suo articolo sul tema da dare ai giornali. Alla fine scelse la prima. E Cameron decise successivamente di evitare anche un dibattito televisivo diretto con Johnson, affermando di voler evitare una guerra interna al partito, ma un dibattito avrebbe potuto aiutare a spiegare meglio la sua posizione per il “Remain”.
Anche altre circostanze, esterne rispetto alle vicende elettorali nel Regno Unito, hanno giocato a favore del “Leave”: la crisi economica, la mancanza di informazioni (è emerso che molti in Gran Bretagna sapevano poco della UE e le sue istituzioni), regolamenti comunitari onerosi, l’eccessiva burocratizzazione, la sensazione che si sprecasse denaro pubblico. Ma anche la crisi della zona euro che ha eroso la fiducia nelle istituzioni del blocco: da allora i paesi del sud, come l’Italia, la Spagna, la Grecia, sono devastati da problemi economici e di disoccupazione giovanile. Poi è arrivata la sfida della guerra civile siriana, con un gran numero di rifugiati in fuga verso la sicurezza dell’Europa attraverso le isole greche orientali. Anche i battibecchi tra i membri dell’UE sul modo migliore per affrontare la crisi migratoria, ancora una volta, hanno danneggiato la sua reputazione di organismo politico comune.
Come anche ha sottolineato Boris Johnson, “la Gran Bretagna è parte dell’Europa e sempre lo sarà.” D’altro canto, solo il 15 per cento dei cittadini britannici si considera europeo, e tale percentuale non è cambiata molto nel corso degli ultimi due decenni. Ciononostante, tra quelli che si consideravano europei, più di nove su 10 hanno voluto che la Gran Bretagna rimanesse nella UE.
In ogni caso, l’esito elettorale col quale bisogna confrontarsi ha determinato il “Leave”, e questo è l’oggetto del dibattito oggi.
Cosa vuol dire esattamente “lasciare” l’UE?
Quando David Cameron ha presentato le sue dimissioni nel discorso di venerdì, ha detto che avrebbe lasciato al suo successore il compito di innescare il cosiddetto articolo 50 del trattato di Lisbona, cioè la procedura con cui uno stato membro dell’UE lascia l’Unione.
Ciò ha spinto molte speculazioni – e anche un barlume di speranza per coloro che vogliono che la Gran Bretagna rimanga nell’Unione europea. Cameron, secondo loro, aveva più volte detto durante la campagna che l’articolo 50 avrebbe dovuto essere attivato immediatamente se il “Leave” avesse vinto il referendum.
Questa strada sembra una speranza per gli “europeisti” più fondata di quella riposta nella imponente e repentina raccolta di firme per indire un altro referendum (“Brexit 2”), con quorum più alti, invalidando il precedente, o quella della strada dell’indipendenza di Londra dal Regno Unito e la sua adesione da “Città-Stato” all’UE.
Che cosa è l’articolo 50 e perché è così centrale per il dibattito Brexit?
Cameron lasciando in eredità la responsabilità a chi gli succederà, ha consegnato al prossimo primo ministro un calice avvelenato: data la reazione immediata del Brexit (sui mercati azionari mondiali, sulle borse estere, in Scozia, in tutta l’Europa), chi oserà ora appendere la campana al chiodo?
Una conseguenza di tutto questo, come un commentatore ha sostenuto sul sito del Guardian, è che Cameron ha effettivamente impallato il campo Brexit: il fronte del “Leave” può aver vinto il referendum, ma gli attuali deputati non possono usare il mandato che hanno ricevuto perché se lo facessero potrebbero correre il rischio di essere visti come coloro che hanno condannato il Regno Unito alla recessione, al disfacimento e ad anni di dolore. E ciò potrebbe significare, come molti osservano, che più si rinvierà l’attivazione dell’articolo 50 e maggiore sarà la probabilità che non lo si affronterà mai. E finché la notifica dell’attivazione dell’art. 50 non verrà inviata, il Regno Unito rimarrà parte dell’UE. E non esiste attualmente alcuna ragione o prova per credere che, a prescindere dal risultato del referendum, la notifica verrà mai inviata.
È questo uno scenario possibile? Certo, i principali attivisti Brexit, tra cui Boris Johnson e Matthew Elliott, hanno già detto molto chiaramente che non hanno alcuna fretta di spingere il pulsante. Essi sostengono che è molto meglio avviare colloqui informali con Bruxelles e con gli altri Stati membri al fine di arrivare allo schema di un possibile accordo prima che la Gran Bretagna venga messa alle corde dello stretto lasso di tempo di due anni entro il quale dover concludere i negoziati per l’articolo 50 (altrimenti la Gran Bretagna rischia di dover lasciare l’UE senza nessun accordo e sarebbe devastante quanto improbabile).
Questo spiega perché i ministri dell’UE si sono, invece, precipitati a chiedere negoziati sul Brexit per iniziarli “il prima possibile”, in modo da evitare un lungo periodo di incertezza e di instabilità che, con l’euroscetticismo in aumento in tutto il continente, potrebbe creare gravi danni al blocco UE già indebolito.
In definitiva, sembra che, al momento, non ci sia alcun mezzo legale immediato al di fuori del creare una situazione di stallo: è del tutto rilasciato allo Stato membro che lascia l’UE far scattare l’articolo 50, mediante l’emissione di notifica formale dell’intenzione di lasciare e nessuno, a Bruxelles, Berlino o Parigi o Roma può costringerlo ad aviare la procedura. Ma allo stesso tempo, non c’è niente che obblighi l’Unione Europea ad aprire negoziati, compresi quei colloqui informali che i leader Brexit vorrebbero avviare prima che venga avviata la notifica formale.
“Non vi è alcun meccanismo per costringere uno stato a recedere dall’Unione Europea”, ha detto Kenneth Armstrong, professore di diritto europeo all’Università di Cambridge. “L’articolo 50 serve proprio a consentire il ritiro della decisione di separarsi, ma nessun altro ha il diritto di invocare l’articolo 50, nessun altro Stato o istituzione. Se il ritardo è fortemente scomodo politicamente, legalmente non c’è nulla che possa costringere uno Stato a ritirarsi”.
Però, Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, si aspetta che Cameron annunci formalmente l’uscita europea della Gran Bretagna per stasera, martedì 28 giugno, presentando l’annuncio formale che la Gran Bretagna intende uscire dalla UE.
“La notifica di cui all’articolo 50 è un atto formale e deve ancora essere presentata da parte del governo britannico al Consiglio europeo”, ha detto un funzionario dell’UE, “e deve essere fatto in modo inequivocabile, con l’intento esplicito di innescare l’articolo 50. I negoziati per la separazione e per i rapporti futuri possono iniziare solo dopo una notifica formale. Se è davvero l’intenzione del governo britannico di lasciare l’Unione europea, è quindi nel suo interesse comunicarla al più presto possibile.”
Anche alcuni diplomatici europei sono in dubbio se l’articolo sarà mai attivato in quanto il termine stretto per i colloqui mette il Paese che lascia in una posizione molto debole. “Personalmente credo che non sarà mai comunicata”, ha detto un diplomatico. “Nel momento in cui si preme il pulsante sei in una posizione negoziale debolissima.”
Carl Bildt, l’ex primo ministro svedese, ha detto che anche una espulsione “de facto” è una possibilità, per quanto remota, a meno che la Gran Bretagna ottenga una mossa da parte dell’UE, ma non è chiaro su quali basi ciò potrebbe accadere. L’articolo 7 del Trattato di Lisbona consente infatti all’UE di sospendere un membro se ritiene sia in violazione dei principi fondamentali di libertà, democrazia, uguaglianza e Stato di diritto. Ma questa sarebbe l’opzione “nucleare”.
La situazione potrebbe complicarsi per il governo UK abbastanza rapidamente. Politicamente, la pressione su Cameron (e sul suo successore, chiunque egli sia) potrebbe essere fortissima. Ma legalmente, non sembra esserci alcuna via più facile dell’attendismo. Se la Gran Bretagna lo desidera, questa potrebbe diventare una situazione di stallo che potrebbe trascinarsi per anni.
In sostanza, Cameron non ha ancora invocato l’articolo 50, nessuna notifica è stata inviata presso l’Unione europea e il mancato invio della notifica proprio il giorno dopo il referendum vorrà dire che vi è una forte probabilità che non sarà inviata mai.
E finché la notifica non verrà inviata, il Regno Unito resterà parte dell’UE.
In ogni caso, sulla base di ciò che accadrà (e se accadrà) dopo l’avvio della procedura prevista dall’art. 50, lasciare l’UE potrà significare molte cose, a seconda degli accordi che la Gran Bretagna stringerà con il resto dell’UE dopo esserne uscita: se il Regno Unito opterà per un rapporto in stile norvegese con l’UE, manterrà la completa integrazione con i beni e servizi mercati dell’UE (ma non in agricoltura) e la Gran Bretagna sarà comunque tenuta a contribuire al bilancio dell’UE e ad accettare la libera circolazione delle persone. All’altra estremità dello spettro, alla ricerca di un rapporto basato, ad esempio, sulle regole dell’WTO, verrebbero erette enormi barriere tra il Regno Unito e l’Unione Europea, con il risultato, secondo gli economisti, di limitare il commercio, con un minor numero di posti di lavoro e redditi più bassi, ma questo è lo scenario meno probabile.
Ci sono molte opzioni tra questi due estremi, ma il Regno Unito, nell’ambito della procedura di cui all’articolo 50, potrà non essere in grado di scegliere, perché qualunque sarà l’orientamento del governo britannico, la struttura di accordi scelta dovrà essere concordata con tutti gli altri 27 paesi, ognuno dei quali potrà opporre il proprio veto o decidere di sottoporre a referendum interni qualsiasi accordo proposto.
Al di là di queste beghe di carattere legale e politico che nulla hanno da invidiare ad alcune architetture politiche nelle quali siamo maestri in Italia, vedremo nei prossimi articoli quali scenari e opportunità potranno aprirsi, perché ogni crisi è sempre anche un’opportunità, anche per noi italiani.
Paolo Battaglia
Dottore Commercialista in Ragusa e ACA Chartered Accountant (ICAEW) a Londra
Paolo Battaglia - author
Paolo Battaglia, è laureato in Economia e Commercio presso l’Università di Messina, con Master in Business Administration presso la Central Connecticut State University, ICAEW Sustainability Certificate, IIEEL Certified ESG Professional (CESG Pro-Associate Level), Dottore Commercialista, Revisore Legale e ICAEW Chartered Accountant (Institute of Chartered Accountants in England and Wales), membro della ICAEW Financial Reporting Faculty e della ICAEW Corporate Finance Faculty, con 25 anni di esperienza in Italia e all’estero nel guidare la crescita organizzativa, finanziaria e i processi aziendali delle PMI.
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